In occasione della Settimana di preghiera per l'unità dei Cristiani in Val Bregaglia

Intervista al sacerdote e alla pastora che pregano insieme

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio, è l’occasione per incontrare don Antonio Codega (sacerdote guanelliano a Coira) e la pastora della Chiesa riformata di Bregaglia, Simona Rauch, che guidano l’annuale celebrazione ecumenica.
Vorremo iniziare la nostra intervista partendo da una piccola esperienza che ci accomuna. Da qualche anno a questa parte si svolge la preghiera ecumenica tra cattolici e riformati. Molti fedeli
dall’Italia vi partecipano. Come valuti questo momento? E quali ricadute ci sono nella tua comunità?
Don Antonio: «La preghiera per l’unità dei cristiani si svolge da parecchi anni in Val Bregaglia (Svizzera). Dapprima nelle varie chiese della Valle, mentre da qualche anno è vissuta  alternativamente nelle chiese di San Gaudenzio a Vicosoprano e di San Martino a Bondo. Desidererei vi fosse più partecipazione di fedeli svizzeri come è stato per qualche anno all’inizio
dell’esperienza. Il desiderio è che si cerchi davvero “l’unità in Cristo” senza che nessuno si senta migliore dell’altro. La partecipazione dei fedeli dall’Italia è da valutare molto positivamente perché si prega come desidera Gesù: essere tutti uno in Cristo. Questo gesto apre orizzonti mondiali perché la preghiera abbraccia varie realtà di Chiesa. Anche se non è semplice, più ci si conosce, più ci si può capire ed apprezzare il positivo di ognuno. Se in ciascuno non c’è buona volontà di cambiare qualche idea, creatasi nel tempo o che oggi resta ancora, può crearsi
confusione, pensare che una religione vale l’altra. Ma il senso è risvegliare la fede comune in Cristo e aprirsi alla volontà di Dio».
Simona Rauch: «La celebrazione ecumenica nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è ormai un’esperienza consolidata da molti anni in Bregaglia. Ci rallegra in modo particolare la numerosa partecipazione da parte di fratelli e sorelle della vicina Italia. Credo che questo sia un segno che parla della fratellanza e della fede comune che ci unisce al di là delle frontiere religiose, ecclesiastiche, ma anche geografiche e politiche. La celebrazione è un momento bello, importante e intenso di fraternità e di condivisione vissuta tra le nostre comunità. Questa esperienza si rinnova ogni anno, nell’incontro, nel sedersi l’uno accanto all’altro, nell’ascolto comune della stessa Parola, nel canto e nella preghiera. Purtroppo, questa esperienza forte e
significativa, che nutre e fa crescere la nostra fede, rimane confinata ad alcune occasioni speciali nell’arco dell’anno, ma potrebbe e dovrebbe estendersi ben al di là di queste singole date e diventare esperienza quotidiana, nel cammino di ogni giorno. È lì che dovremmo sentire la forza e la spinta che ci viene dalla condivisione della nostra fede, dal confronto e dal dialogo quotidiano con chi crede, ama e spera insieme a noi. È lì che dovremmo scoprirci sorelle e fratelli in Cristo».

C’è un’altra esperienza che accomuna i cristiani di Bregaglia: la partecipazione ai funerali che vede raccolti sia Riformati che Cattolici. Cosa emerge da questi momenti? Cosa si coglie da
questa esperienza condivisa?
Simona Rauch: «La celebrazione degli atti liturgici come i funerali, ma anche i battesimi e i matrimoni, è un’altra occasione in cui ci ritroviamo insieme, cristiani delle diverse confessioni, ma
anche credenti di altre religioni, agnostici, atei. La sofferenza, il dolore, come anche la gioia e la speranza sono ciò che ci accomuna ed evidenzia in modo inequivocabile la nostra appartenenza
a una stessa umanità. Le domande che sorgono in questi momenti particolari della nostra vita e che ci interpellano sul senso della nostra esistenza sono le stesse, anche se le risposte che ognuno di noi dà sono diverse. Ci sono situazioni della vita in cui le differenze che ci separano – di lingua, di cultura, di confessione – non hanno più senso, svaniscono per far emergere semplicemente la nostra umanità».
Don Antonio: «Il funerale ha avuto una forte e positiva evoluzione. Dall’usanza di celebrarlo al cimitero, si è passati all’osservanza della legge comunale. Nessun fedele dell’altra confessione
partecipava alla Messa o al Culto fatti nelle rispettive chiese. Negli anni qualcuno ha iniziato a farlo. Ora la popolazione vive il funerale partecipando sia alla Celebrazione eucaristica sia al Culto nelle rispettive chiese e poi ci si incammina al cimitero. Sta crescendo la possibilità della cremazione e sembra serpeggiare la scelta di eliminare il funerale, di “nascondere sempre la più la morte”, di viverla solo in forma privata. La legge civile permette di conservare le ceneri in casa o altro. Ma questo non è in sintonia con la legge ecclesiastica. E allora mi chiedo: perché lo
si fa, per quanto tempo, per quale scopo e che fine faranno queste ceneri? Si crede ancora nella vita eterna?».

Siamo in un periodo definito di “cambiamento d’epoca”: ritieni che ciò stia avvenendo anche nella tua comunità? Se sì, come è cambiata la comunità dei fedeli in questi ultimi anni?
Don Antonio: «Il problema è vedere come è colto, capito e approfondito il cambiamento che è in corso, che c’è e si vede. La comunità dei fedeli non cerca maggior unità, partecipazione di
vita ecclesiale; spesso si emigra, oppure ognuno vive per sé. Ad esempio, nel fine settimana si fanno feste, ci sono tante proposte, attività, impegni da portare avanti… non c’è più la scelta di vivere la domenica come giorno del Signore. Mi chiedo anche: in una famiglia “mista”, con un coniuge cattolico ed uno riformato, quanto influisce la possibilità di fare scelte cristiane, di mantenere viva la fede, di sentirsi partecipi della comunità cristiana? Spesso sembra prevalere l’indifferenza, la paura di impegnarsi, il fare quello che più piace o interessa…».

Da vari decenni le nostre Chiese sono impegnate in quello che è definito il dialogo ecumenico: cosa ne pensi e come valuti il cammino svolto finora? Noti un interesse relativamente a questo
aspetto nella tua comunità? Val la pena continuare in questo dialogo e quali sono, a tuo avviso, gli aspetti su cui occorre lavorare e puntare?
Simona Rauch: «Personalmente credo che il dialogo ecumenico non sia un elemento opzionale, ma sia parte integrante della fede cristiana. Non possiamo fare a meno di dialogare, non possiamo pensare di essere cristiani facendo a meno degli altri, da soli. E soprattutto non possiamo presentarci divisi di fronte alle sfide urgenti e drammatiche che abbiamo davanti oggi come l’ingiustizia, la povertà, l’immigrazione, i cambiamenti climatici, il razzismo e l’antisemitismo. Questi temi interpellano oggi concretamente la nostra fede e ci chiedono con urgenza di imparare a pregare, sperare e agire insieme. Ne va della credibilità della nostra fede e del nostro impegno. La sfida che abbiamo davanti è quella di scoprire un ecumenismo capace di agire
concretamente sul fronte della terra abitata».
Don Antonio: «Un “dialogo ecumenico” vero e proprio non è facile da portare avanti, chiede del tempo. Ci vuole molta apertura, conoscenza, approfondimento, buona volontà da parte, se non di tutti almeno di molti. Allora sono importanti quei piccoli passi fatti insieme. Sacerdoti e pastori, catechiste che si incontrano, parlano, si ascoltano con umiltà, si vivono insieme dei momenti comunitari. Preghiera, attività caritative – umanitarie, relazioni quotidiane vissute con rispetto, amore, umiltà, perdono vicendevole, senza rivalse, ma per capirsi, intendersi e vivere sempre un cammino di fede, e fare di ogni situazione un’occasione per arrivare a quella unità che Cristo vuole».

Una domanda personale a Simona: in Italia non siamo abituati alla presenza femminile in ruoli di guida pastorale nella comunità, se non in alcuni aspetti. Qual è invece la tua esperienza come
guida della Comunità riformata in Bregaglia?
«La presenza femminile è ormai una realtà consolidata nelle Chiese riformate da circa sessant’anni. A questo proposito mi piace ricordare che la prima comunità ad aver assunto una donna come pastora titolare nel 1931, è la piccola comunità di Furna, un villaggio di montagna della Prettigovia (Grigioni). È vero che quando sono arrivata in Bregaglia, ormai dodici anni e mezzo fa, ero la prima donna ad assumere questo incarico nella storia di questa Valle. Questo non ha però comportato difficoltà, anche se la gente ha dovuto sicuramente abituarsi a un’altra sensibilità e a un altro modo di interpretare e di vivere il ministero pastorale. Il fatto che pastori uomini e donne, con i loro diversi doni e le loro specifiche sensibilità, possano insieme annunciare, interpretare e tradurre la Parola di Dio per gli uomini e le donne di oggi rappresenta una ricchezza».

E per te don Antonio, dopo più di 40 anni di ministero in Bregaglia quali sono le tue considerazioni?
«La mia considerazione è che oggi non è semplice portare avanti un’azione pastorale. Allora che scelte fare, su cosa puntare per annunciare? Come fare per camminare insieme? Come vivere
Parola di Dio, doni sacramentali, vita di comunità, senza porsi in contrasto continuo con la mentalità prevalente, con l’individualismo imperante? Bisogna forse guardare la realtà, mettersi alla
scuola di Giovanni Battista per riscoprire la missione di ogni cristiano e incontrare Cristo e riconoscerlo. Anche nel nostro tempo il Signore è con noi e chiama tutti. Preghiera e speranza ci accompagnano e sostengono sempre. La fiducia nel Signore che opera non deve mai venire meno».

Gruppo di lavoro per Il Settimanale – Valchiavenna

Intervista pubblicata su “Il Settimanale” #4 del 23 gennaio 2020