Dalle alture che sovrastano Beirut, Harissa appare come una nave fenicia issata sul baratro da chi vorrebbe vivere al riparo dalle tempeste della storia. Un’erta salita conduce alle porte del santuario mariano maronita di Notre-Dame du Liban. Cristiani e musulmani sciiti, sunniti e drusi in questa comune terra biblica hanno scavalcato le guerre per salire anche oggi ai piedi della Regina bianca del Libano che li accomuna come credenti e «costruire ancora un’avvenire nel dialogo con tutti, nel rispetto reciproco, nella concordia fraterna». Vista da quassù Beirut è ora un arcipelago in fermento di luci e ombre di cemento che degradano verso il mare. Nel downtown metropolitano i minareti color sabbia della sunnita moschea blu di Mohammad Al-Amin sembrano sbucare dall’antica cattedrale maronita di San Giorgio con la facciata crivellata di pallottole dell’ultima guerra civile, accanto ai resti del colonnato di una basilica romana. Più in là il trait d’union tra passato e presente lascia spazio al traffico selvaggio del caotico e ultramoderno suq, che strizza l’occhio all’Occidente e alle tasche dei Paesi Arabi con i suoi grattacieli in vetro-cemento e gli store avveniristici firmati dall’archistar irachena Zaha Adid, scomparsa prematuramente tre anni fa, e finanziati dal progetto di sviluppo governativo ‘Solidere’.
Ma Beirut (visitata nel corso di un viaggio curato dall’Opera Romana Pellegrinaggi) è soprattutto emblema di resistenza. Quella di un Paese crocevia di culture millenarie e culla di religioni monoteiste che hanno segnato la storia della nostra civiltà e che oggi, in un Medio Oriente inquinato dalle derive settarie, vuole muoversi in direzione opposta. Salendo verso la residenza del presidente libanese, Michel Aoun, si passa davanti a un monumento dedicato alla pace fatto con seimila tonnellate di ferro dei carri armati usati nelle guerre. «Tutti gli eventi degli ultimi anni nella ‘Terra del Levante’ hanno mirato di fatto a trasformare le composite società mediorientali in ‘società razziste’ – ci dice il presidente cristiano maronita – allo scopo di costruire un nuovo Medio Oriente che rinneghi la sua identità unitaria e allo stesso tempo multietnica e multireligiosa». «Ogni giorno si scopre la resistenza del nostro popolo per rimanere in questa terra – gli fa eco il ministro degli Esteri, Gebran Bassil, musulmano sunnita – il confronto è a tutti i livelli: tra Oriente e Occidente, tra persiani e arabi, tra islam e cristianesimo, tutto converge qui. È un popolo che ha saputo mantenere la sua identità nelle sfide della diversità e questo per preservare e mantenere il nostro messaggio, che è quello coniato da Giovanni Paolo II negli anni Ottanta: ‘Il Libano è più di un Paese, è un messaggio di pluralismo per l’Oriente e l’Occidente’». È del resto noto come il sistema democratico e l’equilibro tra cristiani e musulmani organizzato e sancito dalla Costituzione e dal Patto nazionale faccia del Libano un unicum nell’area mediorentale.
Nel Paese dei cedri convivono diciotto confessioni religiose, delle quali dodici musulmane e sei cristiane, e i cui fedeli sono equamente rappresentati nell’assetto istituzionale: il presidente della Repubblica è cristiano, il primo ministro è musulmano sunnita, il presidente del Parlamento è musulmano sciita. L’identità del popolo libanese emerge da questo ecumenismo, da questo mosaico culturale. Tutti hanno compreso che, se rimangono uniti nelle diversità, rimangono libanesi. «Mantenete questo equilibrio creativo – forte come i cedri – fra cristiani e musulmani, sunniti e sciiti; un equilibrio da patrioti, da fratelli» aveva detto papa Francesco ricevendo un anno fa i membri della Fondazione Maronita e le autorità libanesi. Oggi però il presidente cristiano Aoun e il ministro Bassil temono il complotto di alcuni gruppi per creare squilibrio demografico in Libano. E certamente lo storico documento sulla fratellanza siglato il 4 febbraio da papa Francesco ad Abu Dhabi con il grande imam di Al-Azhar, qui non è certo passato inosservato.
Il nunzio apostolico monsignor Joseph Spiteri ci spiega come questo sia stato compreso in una realtà che vive la fratellanza ma sia anche una sfida per rivitalizzare questo impegno, considerata ora la presenza di più di un milione e mezzo di profughi siriani sunniti che potrebbe mettere a rischio la stabilità del Paese: «L’eco dell’intesa siglata ad Abu Dhabi è stata incredibile – racconta –, abbiamo ricevuto tanti inviti per incontri interreligiosi con sciiti, sunniti, drusi. Il fermento è grande. L’accordo è già oggetto di studio nelle università cattoliche e nei centri di formazione islamici». Anche l’imminente viaggio papale in Marocco – sabato e domenica – è visto positivamente in questa direzione. «Siamo felici che il Papa continui a venire in questa regione perché questo aiuta – ricorda dalla sua residenza a Bkerké il patriarca maronita, il cardinale Béchara Boutros Raï – perché c’è una politica che vuole mostrare che le religioni, le culture diverse non possono convivere e quindi sostengono e impongono guerre». «Dopo anni di terrorismo, di feroce devastazione di tanti luoghi di culto si è dimostrato vero quello che Papa Francesco ha detto tre anni fa: ‘Non ci sono religioni criminali, ma criminali in ogni religione’ – afferma da parte sua il libanese Mohammad Sammak, segretario generale del Comitato per il dialogo islamo-cristiano in Libano, e leader dello ‘Spiritual Islam Summit’ ad Abu Dhabi – l’islam non è una religione criminale. Questa dichiarazione congiunta è una nuova luna di miele tra cristiani e musulmani».